lunedì 31 gennaio 2011

Olive Kitteridge - Elizabeth Strout

Olive Kitteridge è il romanzo con cui Elizabeth Strout ha vinto il premio Pulitzer for Fiction nel 2009.
L'opera è strutturata in tredici brevi racconti autoconclusivi i cui elementi di continuità sono l'ambientazione a Crosby, cittadina del Maine affacciata sull'Oceano Atlantico, e il personaggio di Olive Kitteridge che, ora protagonista, ora comprimaria, ora semplice comparsa, dà anche il titolo al romanzo. Quello dei racconti chiusi è un espediente narrativo originale e ben riuscito che l'autrice, come ci spiega in un'intervista, ha scelto di utilizzare per evitare che il personaggio di Olive Kitteridge risulti antipatico ai lettori.
Crosby è la tipica cittadina americana dove le vite scorrono in modo semplice, regolare ed abitudinario sullo sfondo di un grandioso paesaggio naturale. La natura, descritta nell'avvicendarsi delle stagioni, a tratti sembra partecipare e sottolineare gli eventi divenendo, da cassa di risonanza dei fatti, personaggio essa stessa. Le vite degli abitanti di Crosby, sullo sfondo della baia, sono ordinarie come lo sono quelle della maggior parte di noi ma non sono prive di grandi e piccole 'esplosioni', come le chiama Olive Kitteridge, piccoli drammi personali e brevi istanti di gioia. Sono proprio queste piccole deviazioni dal naturale corso delle cose a fare le storie narrate nei racconti.
Come nella realtà non esistono persone del tutto buone e persone del tutto cattive ma solo persone con pregi e difetti, così nel romanzo l'autrice riproduce la realtà caratterizzando i suoi personaggi di una complessità e profondità mirabili. Olive Kitteridge, collante di tutti i racconti, è un personaggio completo reso nella sua complessità. Ex insegnante di matematica presso il liceo di Crosby, all'epoca in cui sono narrati i fatti - siamo nel post 11 Settembre - è in pensione. Sposata con Henry, il farmacista del paese, e con un figlio, Christopher, è volontaria dell'American Red Cross, presso il museo d'arte di Portland e presso l'ospedale. Olive è una donna più alta della media che, con l'età e in seguito alla menopausa, è divenuta robusta, con polsi grossi e gambe gonfie; ha uno sguardo diretto, zigomi alti e capelli neri. Spesso viene paragonata ad un animale: agli occhi di Kevin Coulson appare come un elefante, secondo la voce narrante sembra una grossa balena addormentata mentre di se stessa e della sua tendenza all'ira Olive dice di avere nell'animo una seppia che a volte si gonfia e spruzza inchiostro; si sente inoltre come un grosso, grasso topo di campagna che si agita nel tentativo di salire sopra una palla che gira sempre più in fretta mentre lei non riesce a spingere le sue goffe membra a salirci sopra. Olive, che agli altri non si è mai mostrata cordiale nè educata, è una donna di un'intelligenza acuta ma severa e ruvida nei modi e nell'eloquio, che conosce bene se stessa e i propri limiti e sa scandagliare e comprendere gli altri. Olive non ha mai chiesto scusa a nessuno in vita sua, non ha molti amici perchè non sopporta le chiacchere e perchè ritiene che le persone abbiano la tendenza a parlare alle spalle. Olive crede 'nel farsi gli affari suoi' e non a caso il suo hobby preferito è il giardinaggio, che può praticare in solitudine. Tulipani e altre bulbose sono la sua passione e attraverso i suoi occhi conosciamo e riconosciamo molte specie vegetali indicate con il loro nome botanico. A Olive non piace stare sola a lungo ma ancor meno stare in mezzo alla gente. L'estrema volubilità del suo umore influisce negativamente sul carattere del figlio, che finisce per farsi dominare dalla paura di lei, acuendone la naturale sensibilità e tendenza alla depressione. Ostinatamente ingenuo, taciturno, solitario, Christopher crescendo diviene un uomo complesso in continuo conflitto con la madre. Podologo, sposa Suzanne in prime nozze e con lei si trasferisce in California, mettendo della distanza fisica fra lui e la madre. Olive soffrirà molto della separazione fisica dal figlio e non riuscirà mai ad accettare veramente la sua scelta, attribuendone la colpa e la responsabilità alla nuora. Tuttavia, anche dopo il divorzio da Suzanne, Christopher non fa ritorno a Crosby, nella casa che Olive e Henry gli avevano costruito. Risposatosi con Ann, si trasferisce a New York per seguire il terapista che l'ha in cura per la depressione e il suo rapporto con la madre. Olive adora Christopher ma la fa impazzire l'idea che lui sia spaventato da lei; più Olive cerca di riparare ai suoi errori più compromette il rapporto con lui. Ad Olive non sono estranei comportamenti bizzarri, come ad esempio, quando al matrimonio del figlio Christopher con Suzanne, nasconde una fetta di torta ai mirtilli nella borsa per potersela gustare a casa in tranquillità; sempre al matrimonio di Chris, come rappresaglia nei confronti del 'dottor Sue', porta via una scarpa della sposa dal suo armadio, scarabocchia un suo maglione con un pennarello nero e le ruba un reggiseno. Tutte piccole 'esplosioni' che Olive sente il diritto di potersi concedere. Anche il rapporto di Olive con il marito, Henry, è piuttosto complicato. E' indubbio che i due si amino anche se Olive ha un modo tutto suo di dimostrarlo. Saranno la lunga malattia e la morte di Henry a lasciare in lei un senso di gratitudine per la vita avuta con lui ma anche di rimpianto per aver respinto con noncuranza l'amore del marito. 'E se il piatto di Olive era stato pieno della bontà di Henry e lei lo aveva trovato gravoso, limitandosi a mangiucchiare qualche briciola alla volta, era perchè non sapeva quello che tutti dovrebbero sapere: che sprechiamo inconsciamente un giorno dopo l'altro'.

venerdì 28 gennaio 2011

Stabat Mater - Tiziano Scarpa

C'è una grande consolazione nella monotonia. Le abitudini servono a cullare gli animi che non hanno nessun abbraccio che li riscaldi. Il mondo si ripresenta sempre uguale, non è troppo doloroso, non aggiunge sofferenze inattese, non pungola con inspiegabili desideri. Tu fatichi a sopportare te stessa.
Da quando, 5 mesi fa, sono diventata mamma, mi sembra di privilegiare più o meno inconsciamente libri che parlano della maternità nei suoi differenti aspetti o forse mi trovo a cogliere maggiormente questo tema e ad essere più sensibile ad esso anche laddove non sia preponderante.
Dopo Accabadora di Michela Murgia, la mia scelta all'interno della pila di libri in attesa di essere letti posta sul bracciolo del divano di casa è caduta su Stabat Mater di Tiziano Scarpa, Premio Strega 2009.
Il romanzo ha la forma di una lunga e sofferta lettera che a più riprese, notte dopo notte, Cecilia, un'orfana sedicenne dell'Ospitale - l'Ospedale della Pietà di Venezia - scrive alla Signora Madre, la mamma che l'ha abbandonata. Cecilia, più che raccontare fatti, si abbandona ad un flusso di coscienza che spesso rasenta l'onirico ed il fantastico, come preda di una febbre o di un'estasi mentre scrive. La fanciulla si tormenta a causa della propria condizione di orfana, interrogandosi sull'abbandono e sulla figura materna, di cui non conosce nulla. Cecilia del mondo conosce solo solo l'orfanotrofio, le suore, le compagne ed il maestro di musica, Don Giulio. Deposto dal suo incarico, il vecchio e stanco sacerdote è sostituito da un nuovo e più giovane maestro di violino nonchè brillante compositore: Antonio Vivaldi. Grazie alla musica di Vivaldi, qualcosa muta nell'animo di Cecilia e le darà la spinta per prendere in mano la propria vita, riconsegnandosi a se stessa e andando incontro al suo destino.
Stabat Mater è un romanzo storico: Vivaldi ha veramente insegnato presso l'Ospedale della Pietà di Venezia e per le sue allieve ha composto numerosi concerti e musiche sacre.
Mi sono ricordata che diversi manuali di puericultura suggeriscono alle mamme di far ascoltare musica classica ai neonati. Il musicista ricercatore Don Campbell sostiene che le musiche di Mozart e di altri compositori siano le più adatte a favorire lo sviluppo di nuove connessioni neuronali grazie a simmetrie e modelli ricorrenti che integrano le funzioni dei due emisferi cerebrali. Non è un caso se nell'elenco delle musiche suggerite per il primo anno di vita trovano posto anche il concerto per violino in la minore e il Largo del concerto n. 15 per chitarra e archi in re maggiore di Vivaldi.

domenica 23 gennaio 2011

Accabadora - Michela Murgia

17 Gennaio 2011. Una coppia italiana senza figli del Frusinate viene arrestata perchè due anni fa ha acquistato un bimbo allora di 5 mesi dalla madre naturale, una donna ucraina con problemi economici.
Questo recente fatto di cronaca ricorda l'incipit di Accabadora, romanzo di Michela Murgia vincitore del Premio Campiello Letteratura 2010. Siamo a Soreni, nella Sardegna degli anni '50. Anna Teresa Listru, che da povera si è fatta misera una volta rimasta vedova, cede, o meglio, da' a fill'e anima, l'ultima delle sue quattro figlie, Maria, alla vecchia sarta del paese, Tzia Bonaria Urrai, anch'essa vedova ma senza figli. Il fatto avviene alla luce del sole e si limita ad alimentare i pettegolezzi dei compaesani per poi venire di lì a poco accettato come una realtà di fatto. Il tacito accordo tra le due donne fa di Maria un fillus de anima, cioè un bimbo generato due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra.
L'attualità di questo romanzo va oltre il tema della compravendita di un minore, dell'adozione legale o di fatto e della maternità effettiva o mancata. Tzia Bonaria Urrai, infatti, non è solo una sarta e la seconda madre di Maria ma anche e soprattutto l'Accabadora, figura realmente esistita nella Sardegna centro-settentrionale - in Gallura soprattutto - fino al 1952, ossia una donna che, vestita di nero e col volto coperto, su richiesta dei parenti la notte procurava la morte dei malati in agonia, soffocandoli con un cuscino o colpendoli con un mazzuolo, in cambio di prodotti della terra.
L'eutanasia, recentemente riportata all'attenzione dell'opinione pubblica dal suicidio del regista Mario Monicelli, malato terminale di cancro, è un tema estremamente complesso e delicato, che Michela Murgia affronta senza semplificarlo. In questo romanzo l'eutanasia è calata nella cultura della comunità sarda di qualche decennio fa, rurale e perciò profondamente legata alla terra, alla natura e al ciclo della vita, dove ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno e dove non trovano posto le categorie 'giusto' o 'sbagliato'. In questo contesto la dolce morte appare come un atto di pietà che rientra nel ciclo naturale delle cose e il non far nulla per alleviare le sofferenze di un moribondo considerato disumano - atto illecito sarebbe parso piuttosto il non fare nulla - . Così come la levatrice, vestita di bianco, aiuta le madri a dare la vita ai figli, così l'accabadora, di nero vestita, aiuta i moribondi a lasciare questo mondo.
Nel personaggio di Tzia Bonaria Urrai coesistono due opposti, due princìpi ultimi, quali la vita e la morte, che fanno capo a due differenti concetti di 'madre'. Tzia Bonaria, infatti, è una vera madre per Maria, che restituisce alla vita prendendola con sè e occupandosi di lei meglio di quanto facesse o potesse fare la madre naturale, ed è anche l'ultima madre, che, con un atto di caritatevole pietà, consegna alla morte chi agonizza, sollevandolo dalle sofferenze dell'ultima ora.
Di fronte all'Accabadore restiamo come la maestra di Soreni, Luciana Tellani. Maestra Luciana è torinese di origine e, pur vivendo da anni a Soreni, rimane una 'del continente' per aspetto, modi e accento.
- E' strano sa, questa cosa del figlio d'anima... - dice Maestra Luciana a Tzia Bonaria.
- Perchè è strano? - il tono di Bonaria era inespressivo.
- Maria non sembra averne affatto risentito. Vede spesso la sua famiglia d'origine?
- Sì, ogni volta che lo chiede. Perchè doveva risentirne?
(...) - Bè, è che mi sembra una cosa così insolita che una bambina venga sottratta... consensualmente, per carità, ma comunque che venga via dalla famiglia così, senza mostrare traumi...
- Non è strano, in questa zona succede ogni tanto, se va a Gennari ci sono almeno tre fillus de anima. (...) Bonaria si fermò per ribadire il concetto: - Non è strano.